In questi giorni si sta sollevando un po’, anche un po’ tanta, maretta nella zona di Valdobbiadene. La questione, al centro del tavolo, è il prezzo delle uve Glera per la produzione di Prosecco DOC. Come sappiamo bene, esistono diverse varietà di Prosecco, e stante il fatto che tutte devono essere prodotte con uva Glera e che il metodo di spumantizzazione è uguale per tutte, le somiglianze finiscono qui.
Va notato, da tenere nel retro cranio, che agli occhi di un consumatore poco informato queste comunanze bastano per cancellare qualsiasi altra differenza. Rimane anche il fatto che un palato appena più educato percepisce facilmente come il territorio collinare della DOCG (chiuso in 15 comuni attorno a Valdobbiadene) rispetto alla pianura delle 9 province totali, (5 Veneto e 4 in Friuli) renda i due prodotti abbastanza differenti, a causa delle variazioni di sottosuolo e microclima.
Le differenze ci sono dunque e la distinzione potrebbe avere un senso. Se effettivamente fosse in grado di aiutare il consumatore a compiere una scelta informata rispetto al vino che sta acquistando, e se servisse ai produttori per potersi proporre correttamente sul mercato, giustificando i prezzi rispetto ad altri vini spumantizzati e tra le due tipologie dello stesso Prosecco.
Il casus belli di oggi è che per diverse ragioni il costo delle uve della DOC ha raggiunto livelli spaventosamente vicini a quelli delle loro sorelle prodotte per i vini atti ad ottenere la DOCG.
Ragioni che, per dovere di cronaca, vanno ascritte tanto a come sia stato creato il disciplinare della DOC, che limita la superficie di produzione delle uve a 20mila ettari, quanto alla richiesta generale di Prosecco nel mondo, cresciuta esponenzialmente. Come ci insegnano i rudimenti di economia: fermo restando l’offerta, a crescita di domanda corrisponde un aumento del prezzo.
Per dare una dimensione al fenomeno diciamo che fino a poco tempo fa le quotazioni per la DOCG erano attorno ai 2,50€ mentre la DOC stazionava attorno ad 1,20€. Oggi pare sia difficile trovare vini DOC sotto i 2,20€.
Cosa comporta tutto ciò? È veramente un problema? La risposta è si, e lo è per due ragioni ben distinte. Ma come sempre il problema non rimane nel problema in sé, ma nel riuscire a trovare una soluzione condivisa da tutte le parti in causa. Veniamo alle ragioni.
La prima è che il prezzo delle bottiglie di Prosecco DOC schizza ai livelli di quelle DOCG provocando ovviamente uno spaesamento del consumatore che perde di vista la differenza tra i due prodotti e facilmente li confonde, e come sempre accade in questi casi è la qualità percepita quella che perde terreno. Morale? Una erosione in brevissimo tempo del valore del marchio DOCG. Quindi male per i consorziati di Valdobbiadene e dintorni. Rimedio in mano alla DOCG? Spingere ancora di più su una comunicazione differenziante dal prodotto DOC, andando contro ciò che all’estero è stato fatto negli ultimi anni, ossia presentarsi assieme per fare fronte comune alle spese… si può fare? Si. Sarà efficace? Bah…
La seconda è più complicata e bisogna essere un po’ più svegli e sottili per comprenderla.
Se da un lato infatti, i produttori di Prosecco DOC stanno facendo salti di un metro visti i prezzi ai quali stanno piazzando la nuova produzione, dall’altro bisogna considerare proprio le caratteristiche di questa domanda altissima.
Il consumatore internazionale di Prosecco è particolarmente sensibile al prezzo ed in maniera inferiore alla qualità. Inoltre, come abbiamo visto, il consumatore straniero non è così edotto ed affezionato, fatica a percepire le differenze tra un prodotto e l’altro, ed è quindi portato a trovare facilmente un sostituto anche a discapito della qualità intrinseca del prodotto.
Operando su mercati internazionali poi, dobbiamo ricordarci del fatto che saremo in presenza di concorrenti internazionali, leggi Cile, Australia, Argentina, Francia. Mentre i primi sono in competizione diretta con i prezzi di oggi, l’ultima, sappiamo bene, gioca la partita della qualità. Prosecco DOC rappresenta un ottimo compromesso qualità – prezzo. Stessa qualità, prezzo doppio, diventa un assioma perdente su tutta la linea. Ecco il secondo problema, in soldoni, il rischio è quello di uccidere in pochi anni la domanda che oggi è così forte, per colpa di prezzi eccessivamente alti.
Ecco dunque che, a mio vedere, chi ha un pelo più di senso per gli affari ha lanciato l’allarme ed ha avanzato un’idea che ha alla base parecchi ragionamenti che credo, personalissimo parere, non siano affatto sbagliati. Bisol, storico produttore, aveva previsto con anni di anticipo l’espandersi della domanda mondiale, addirittura sottostimandola, convinto del fatto che il mercato possa tranquillamente accogliere 1 miliardo di bottiglie di Prosecco (la produzione oggi si attesta a circa la metà), si pone la fatidica domanda di come soddisfare questa richiesta.
Provando a dare anche una risposta, quella più facile, e quella che probabilmente, in effetti, tutela maggiormente la qualità di produzione e gli interessi a lungo periodo: aumentare la superficie dei vigneti dagli attuali 28 mila ettari a 68 mila, in pratica passare dal 3% odierno fino a coprire il 6% del territorio vitato, chiaramente a discapito di altri vitigni.
Il Consorzio di Tutela pare sia andato su tutte le furie, evidentemente contrario, probabilmente perché questo significherebbe una diminuzione dei guadagni che i piccoli produttori vedono oggi e sognavano da tempo. Manco a dirlo, dalla parte di Bisol si schiera un altro grandissimo produttore come Zonin.
Ora, probabilmente ci sono pro e contro, come sempre, e la valutazione generale, io credo vada fatta tenendo in considerazione gli effetti non tanto a breve, ma a medio e lungo periodo. Bellissimo è stato lo spunto lanciato proprio da ONAV Treviso (sempre attenta come associazione più alla sostanza che all’apparenza) sulla sua pagina Facebook, alla quale ho trovato doveroso provare a rispondere. Ribadisco qui i concetti espressi dall’altra parte.
Sono abbastanza convinto che nessuno sia pervaso del sacro fuoco della beneficenza e che tanto il Sig. Bisol quanto Zonin abbiano semplicemente fatto i conti della serva e capito che la gallina di oggi non sia meglio delle due dozzine di uova domani, tre dopodomani, e così via.
Sono anche convinto del fatto che la limitazione del numero dei produttori sia un controsenso se a cuore si ha veramente la spinta alla qualità. Più concorrenza porta ad una qualità più alta, soprattutto se in presenza di un consorzio/organizzazione forte, capace di indirizzare politiche comuni di prezzo e di comunicazione. Chi non ci crede probabilmente non è convinto delle proprie capacità (tipico della mentalità piccolo imprenditoriale italiana, che ci piaccia o meno).
Vero è anche che probabilmente gli unici a poter espandere la propria produzione dall’oggi al domani del 100% sono i grandi e grandissimi produttori, forti di grandi liquidità o di credito facilmente ottenibile da banche e finanziarie. I piccoli e medi produttori avrebbero certo più difficoltà ad espandersi. Il pericolo di un disequilibrio è chiaramente evidente, ed il pensiero corre subito alla tanto temuta parolina “industrializzazione”, che per il mondo vitivinicolo non è sempre ostile nei confronti di termini come “tipicità”, “territorio” e perfino “qualità”, come ho avuto modo di scrivere recentemente.
Ora, da qualunque parte la si guardi si potrebbe dire che entrambe le posizioni hanno come obiettivo la tutela del consumatore e dei diritti dei produttori, ma, pare proprio che il consumatore che hanno in testa i signori del Consorzio non sia lo stesso al quale pensano i grandi produttori… la domanda rimane quindi: quale delle due posizioni possiede, oltre alla voce, anche gli occhi per guardare il giusto cammino da seguire per evitare il suicidio internazionale di una produzione che porta de facto la bandiera enoica italiana in giro per il mondo?