Le certezze, reali o di facciata, sono spesso molto meno “certe” di quanto spesso non vogliano apparire e il mondo del vino, così come qualsiasi ambito umano, non è certo esente da questo voler apparire più sicuri, più bravi o, talvolta, semplicemente diversi.
Agronomia e enologia sono state protagoniste negli ultimi decenni di una rivoluzione scientifica e tecnologica senza eguali alle quali si sono affiancati, con effetti altrettanto dirompenti, prima un profondo mutamento del gusto dei consumatori poi, in tempi assai più recenti, una sua drastica frammentazione dovuta talvolta alla maggior attenzione degli appassionati alle caratteristiche gustolfattive dei vini e talvolta a un approccio marcatamente ideologico o “filosofico” su come fare il vino.
In questi ultimi anni, per me costellati di assaggi e visite in cantina, ho iniziato a maturare la netta convinzione – dando ovviamente sempre per accertata l’onestà e la buona fede, valori imprescindibili per chi produce e per chi, come me, racconta – che non esista il “modo di fare il vino” bensì esistano molti – moltissimi – modi per farlo e che ciascuno possa, quando applicato correttamente e nel giusto contesto, dar vita a prodotti interessanti e capaci, ciascuno a modo proprio, di offrire quelle emozioni che ognuno di noi cerca in ogni sorso.
Queste considerazioni, che spero essere condivise dai più, si scontrano con un approccio spesso un po’ “rigido” da parte di molti produttori che raccontano i loro vini lasciando intendere che, pur potendoci essere altri approcci di vigna e cantina, il loro – per quanto, talvolta, particolare e fuori “dagli schemi” oppure assolutamente convenzionale e tratto direttamente da un volume universitario di enologia – debba evidentemente esser il migliore. È chiaro che questo modo di approcciarsi al proprio lavoro non solo sia umano ma sia, indubbiamente, il modo corretto. Chiunque utilizzi un suo personale modo di lavorare deve, implicitamente, essere convinto che sia il migliore altrimenti non avrebbe altra scelta che…cambiarlo. Non intendo dire che ciascuno di noi non debba quotidianamente mettere in dubbio le proprie certezze bensì che, fino a quando tali certezze non vengano seriamente messe in crisi nel cuore e nella testa di ciascuno, esse devono rimanere il nostro punto di riferimento.
Queste devono però essere le certezze di chi lavora – ovvero, nel nostro caso, produce vino – non di chi consuma.
L’appassionato dovrebbe pensare molto più a ciò che trova nel bicchiere che non alle tecniche di vigna o cantina. Certo, alcune scelte legate alla vitivinicoltura a basso o bassissimo impatto ambientale – vini biologici, biodinamici o, in senso più generico, naturali – hanno indubbiamente, almeno per me, un valore aggiunto, ma sempre e comunque solo in totale assenza di palesi difetti. Oggi, infatti, la grandissima parte di questi prodotti sono tecnicamente ineccepibili dimostrando che le conoscenze delle pratiche di vigne e cantina sono cresciute a tal punto da rendere possibile la produzione di vini ecologicamente perfetti riducendo al minimo l’impatto sull’ambiente e che, pertanto, chi ancora abbia delle difficoltà in tal senso debba impegnarsi maggiormente e non utilizzare come alibi questa o quella certificazione.
Tutt’altro peso assumono invece le sconfinate dispute sull’uso del legno, sullo svolgimento della malolattica, sui lieviti utilizzati, sull’uso delle anfore o del cemento, sui modi di allevamento della vite e su tutti quei piccoli o grandi accorgimenti che conferiscono a ciascun vino le proprie caratteristiche. Intendiamoci, non sto sostenendo che un vino vale l’altro o che queste differenze non influiscano sul prodotto finale. Sto solo scrivendo che ciascuno di noi dovrebbe scegliere un vino per ciò che è capace di comunicargli durante l’assaggio e non sulle basi della scheda tecnica. Quest’ultima riveste sicuramente un grande interesse che, a mio avviso, deve essere, però, conoscitivo e non valutativo, perché potrà aumentare le nostre conoscenze e la nostra consapevolezza ma, sicuramente, nulla aggiungerà al piacere – o alla delusione – di una degustazione. Il vino è per me come un quadro, ovvero un insieme di tecnica, talento e ispirazione e la conoscenza del periodo storico, della biografia del pittore, della tecnica usata o del tipo di colori potrà darci ulteriori chiavi di lettura, ma nulla aggiungerà alle emozioni che ricaveremo dall’osservarlo.
Un’ultima considerazione è, però, dovuta, almeno secondo me: ogni scelta in vigna o in cantina, sia essa un piccolo dettaglio o una fase capace di influenzare in modo sostanziale il prodotto finito, deve rispondere a un’esigenza precisa, deve aggiungere qualcosa al vino, gli deve dare anima e personalità esaltando le caratteristiche del vitigno e del terroir oltre a mettere in evidenza l’intervento dell’uomo che, giustamente, nel frutto del proprio lavoro desidera lasciare qualcosa di sé.
Diffidiamo, pertanto, dal “famolo strano” che spesso risponde solo a esigenze di marketing e influisce molto più sul costo che sulle caratteristiche del vino: la tradizione e la modernità, il legno o l’acciaio, le spremiture soffici o le torchiature devono sempre rispondere all’esigenza di donare qualcosa al vino, arricchendo ciò che la natura e il lavoro sanno mettere a disposizione e mai devono prestarsi al triste ruolo di “specchietto per le allodole”.
Credits: Immagine From Grape to Bottle presa da Exclusive Wine