Il mondo del vino è un mondo in costante cambiamento.
In parte lo è per definizione, in quanto ogni vendemmia fornisce una diversa materia prima ai produttori dando quindi un prodotto finale che è necessariamente (chi più chi meno) diverso ogni anno.
Lo è anche, e questo è un cambiamento più lento, per fattori che hanno meno a che fare con il prodotto stesso e più con i regolamenti e le definizioni che i produttori devono seguire.
Tra i vari gruppi di queste definizioni rientrano anche quelle che sono le denominazioni di origine riportate in etichetta. Se da un lato le denominazioni sono un aiuto al consumatore per capire qualcosa del vino stesso, in alcuni casi possono essere un freno all’innovazione da parte dei produttori.
Vediamo perché.
Le Denominazioni nei Vini
La storia delle denominazioni si può fare iniziare in Francia, come molte delle storie legate al mondo del vino.
Fu infatti nel 1855 che si iniziò, nel Bordolese, a definire quelli che ancora oggi, con poche variazioni, sono i migliori appezzamenti di terreno della zona dal punto di vista vinicolo. I famosi “Cru” vengono da lì.
L’acquirente di una bottiglia di Bordeaux poteva quindi leggere in etichetta che le uve usate per la produzione del vino che ha in mano venivano da una zona o una vigna ben definita.
Il concetto fece scuola, tanto che si estese al resto della Francia e successivamente al resto del mondo.
Criteri e definizione delle Denominazioni
Oggigiorno ogni nazione vinicola ha i suoi criteri di definizione delle denominazioni riportate in etichetta, ma più spesso sono i produttori di una certa zona a definire collegialmente i criteri di appartenenza ad una denominazione, aggregati in quello che si chiama “Disciplinare”.
Altrettanto spesso questi criteri vanno a definire alcune delle metodologie di produzione del vino stesso, dagli uvaggi consentiti alle tecnologie di produzione e di invecchiamento.
Se tutto questo rappresenta ancora un vantaggio per il consumatore nel definire il contenuto del vino, il numero e la diversità delle denominazioni stesse finisce per diventare complesso da gestire, sia per gli addetti ai lavori che per i consumatori finali.
Basti pensare alla sola Italia, dove al momento in cui si scrive esistono 75 DOCG e 330 DOC, senza contare le 118 IGT che in futuro potranno o meno diventare DOC.
Dentro o fuori dai disciplinari? Tra sostenibilità e sperimentazione
Al di là del numero, è la diversa tipologia di denominazione che può generare confusione.
Se infatti la grande maggioranza dei consumatori può identificare nelle denominazioni un’indicazione di provenienza geografica delle uve, è nella tipologia delle stesse e delle tecniche di vinificazione ammesse dalla denominazione che si genera confusione.
Occorrerebbe uniformare i criteri di attribuzione delle diciture (ad esempio uniformando i “Superiore” e “Riserva” in termini di invecchiamento), e tuttavia le diverse tipologie di vino non consentono questa uniformità.
Non solo, alla lunga il volere arrivare nei disciplinari a definire nei minimi particolari tutti gli aspetti del vinificare finisce per creare un possibile freno alla capacità e volontà di sperimentazione dei vignaioli.
Il risultato è che per produrre il vino che si vuole si è costretti ad uscire dalla specifica denominazione, finendo per utilizzare disciplinari “minori” in termini commerciali.
Intendiamoci, non ci si auspica che in Toscana si pianti del Nero d’Avola (per quanto, chi lo sa..), ma ci si immedesima piuttosto nel produttore che deve fare fronte ad annate particolari e vorrebbe usare uvaggi diversi (più o meno carichi di sostanze desiderate) per bilanciare il frutto a sua disposizione, e si trova nella condizione di non poterlo fare, pena l’uscita dal disciplinare, con ovvie ripercussioni commerciali.
Se si apprezza il produttore che arriva a “declassificare” il proprio vino (ad es. Rosso di Montalcino da Brunello), o addirittura a non produrre il vino in questione in determinate annate, bisognerebbe ricordare che non tutti hanno le spalle larghe a sufficienza per potere fare un’operazione del genere.
In questi casi, e si tratta solitamente di piccoli produttori, avremo quindi vini che risentono maggiormente delle differenze tra annata ed annata.
I limiti attuali delle Denominazioni
Inoltre è bene ricordare che la storia dell’enologia, anche recente, racconta di produttori con un’idea diversa dalla tradizione che hanno dovuto fare i conti con un’ostracismo forzato dai disciplinari.
Basti pensare a Gaja escluso dalla possibilità di usare il termine Barbaresco perché non usava botti adeguate alla tradizione o ad Incisa Della Rocchetta che dovette chiamare Vino Da Tavola il suo Sassicaia perché gli uvaggi che usava non rientravano in alcun disciplinare.
Ed è questo forse l’elemento più problematico delle denominazioni: Il fatto che finiscano per essere quasi un freno alla capacita’ dei produttori di sperimentare con vitigni e metodi produttivi contrari alla tradizione riportata in disciplinare.
Occorrerebbe quindi attenzione da parte del pubblico a non fraintendere le denominazioni come i soli criteri qualitativi di un vino, ma apprezzarne la quantità di informazioni che possono dare riguardo ad un vino, senza che debbano essere considerate una “conditio sine qua non” perché un vino sia apprezzabile.