Una delle cose belle di essere rimasto in contatto con ONAV è che le degustazioni e le serate che organizzano sono sempre di alto valore didattico. Molto più che la possibilità di bere “grandi vini” c’è l’attenzione alla formazione continua dei soci, cercando sempre di creare occasioni per approfondire le capacità di ciascuno di analizzare, valutare ed in definitiva comprendere quello che un bicchiere di vino racchiude. La conoscenza diffusa delle tipologie di vino e dei perché e percome quel vino riesca a trasmettere determinate sensazioni una volta nel bicchiere è a mio parere la solo strada per iniziare a districarsi all’interno di questo sconfinato mondo. Riuscire a riconoscere un processo di lavorazione, poter ipotizzare l’allevamento su un tipo di terreno piuttosto che un’altro, sentire che un gusto ritrovato in quel particolare vino sia frutto di un metodo di affinamento particolare piuttosto che di una specifica uva è, anche se potrei sbagliare, la quintessenza della piacevolezza del “bere consapevole“.
Perché il mito del vino come bevanda naturale, nel senso di “fatta dalla natura” è tutt’altro che vero. Il vino è un prodotto dell’uomo dalla A alla Z, frutto di un allevamento “forzato” di una pianta che in gran parte d’Europa sarebbe estinta, ottenuto da processi anche complessi di fermentazione, controllate in ambienti condizionati anche quando vengono descritte come “naturali”, il vino è conservato e preparato per esistere in una forma che naturalmente non avrebbe mai potuto essere.
Il vino è fatto di passaggi, di tecniche, di addizioni e sottrazioni, il vino è fatto dall’uomo e per l’uomo.
Il vino è una scelta. Anzi il vino è una infinita catena di scelte. Oculate, precise, a volte coraggiose, spesso conservative.
E, come sappiamo bene, tutte le scelte sono fatte in funzione di uno scopo. Le scelte costituiscono quel filo rosso che unisce gli elementi disponibili in partenza con il risultato finale atteso, o sperato.
Forse, fino agli ultimi decenni del secolo scorso, i punti di partenza, le condizioni, le alternative, così come gli obbiettivi perseguibili erano numericamente inferiori. Abbiamo tutti esperienza di come il passare degli anni ci proponga sempre più alternative, sempre più possibilità, ogni giorno una variante in più, ogni giorno un ritrovato tecnico o scientifico aumenta il numero di strade perseguibili, e sempre più sarà così.
Il mondo del vino non è dissimile dal resto della vita, anzi, è spessissimo specchio diretto dell’interpretazione che della vita danno i vari attori della filiera. Dagli agronomi, ai vignaioli, dagli enologi ai produttori, distributori e perfino, ovviamente, dei consumatori.
Sono le scelte quindi che fanno la reale differenza. Sono le scelte compiute quotidianamente che si condensano nell’uva prima (e stabilire quale uva è già una scelta) e nel bicchiere poi, che in un certo senso raccontano della storia e dei perché di chi quelle scelte le ha compiute.
Capire, comprendere, indagare, come è stata ottenuta una bottiglia è la parte divertente ed intrigante di questo mondo e gli assaggiatori ONAV dedicano la loro passione ad approfondire proprio questo aspetto, molto più che a giudicare un abbinamento con il cibo o il prezzo di una determinata cantina. Sono aspetti altrettanto divertenti, non lo metto in dubbio, sono addirittura professionalmente estremamente qualificanti per i pochi che riescono a trasformare una passione in un lavoro. Ma per me, che continuo ad appassionarmi più ad una persona piuttosto che al suo vino, ad una storia, molto più che al costo di una bottiglia, poter risalire alle scelte di un produttore, e quindi alla sua filosofia alla sua mentalità, alla sua visione del mondo, attraverso un “semplice” assaggio; l’approccio corretto ad un bicchiere continua ad essere quello inferenziale, che parte da dati di fatto e ne cerca le cause, ipotizzandone i perché, andandoli poi a confrontare queste ipotesi, quando è possibile, direttamente con il produttore.
Orbene, tutta questa lunghissima introduzione per dire che proprio grazie ad ONAV Treviso ho avuto il piacere di presenziare ad una serata veramente particolare, nata dalla volontà di approfondire uno dei metodi di fermentazione ed affinamento che negli ultimi anni sta sollevando parecchia attenzione da parte dei consumatori, incuriositi forse anche dal discreto marketing che si è saputo attivare a proposito, e che quindi sempre più produttori stanno testando e sperimentando (Josko Gravner il più famoso).
Parliamo di Vini in Anfora. Del loro utilizzo sia durante la fase di preparazione della massa vinaria, usandole per le varie fermentazioni o per l’affinamento, fino a testarne la conservazione, sfruttando le caratteristiche fisico-chimiche della terracotta.
La curiosità in questo caso era legata alla possibilità di comprendere cosa significhi realmente per un vino essere lavorato in questo modo. Cosa comporta “nel bicchiere” la scelta dell’anfora. Poter testare lo stesso prodotto, dello stesso produttore, realizzato “con o senza”, cosa aggiunge e cosa toglie, e quindi come modifica.
In definitiva, ancora una volta, il gusto era tutto nel comprendere una scelta. Senza giudicarla, senza il desiderio egoico del poter dire alla fine “è giusta o sbagliata”, semplicemente conoscere gli effetti, gli oneri ed i vantaggi, per “capirne i perché”, e capire quindi un po’ meglio anche la storia di Casa Belfi e Maurizio Donadi.
Casa Belfi è uno tra i pochi produttori nazionali ad usare questo recipiente per i suoi vini, non è sicuramente l’unico, e come abbiamo detto, più di qualcuno sta testando questi metodi, ma ormai in questa cantina il livello di consapevolezza nell’uso delle anfore è tale da permettere di assaggiare prodotti “compiuti”, pronti per il mercato (o per un certo mercato) e non dei semplici esperimenti.
Maurizio Donadi è un convintissimo sostenitore dei metodi di coltivazione biodinamici, altro immenso capitolo che andrebbe studiato e compreso. Se sommiamo quindi uno più uno dovremmo avere di fronte una cantina che ha scelto una strada di “salubrità” estrema del vino, e questa è una prima pedina da mettere sulla scacchiera. Non solo cerca il massimo rispetto per le piante in termini di salute e naturale vigore, ma, evidentemente ricerca anche strade alternative per raggiungere dei risultati ben presente nella sua mente, che le “tecniche classiche” non permetterebbero di esprimere. Ed ecco quindi l’idea di mettere i Vini in Anfora.
La sala è pronta, i bicchieri schierati, e Maurizio inizia a raccontare di cosa sia in realtà un’anfora. Non un poderoso avanzamento della tecnica, ma nulla più nulla meno che un recipiente antichissimo (noti i vini georgiani a riguardo), usato da quando è stato avviato il commercio dei liquidi in generale e poi progressivamente abbandonato in funzione di altre forme di recipienti tecnicamente più efficienti, e che sostanzialmente è rimasto identico nei secoli fino ad oggi.
Le caratteristiche fisico – meccaniche dell’argilla sono principalmente una buona inerzia termica, quindi la coibentazione del contenuto, la porosità, maggiore o minore a seconda dell’argilla di partenza e della lavorazione necessaria che le rende permeabili in maniera differente sia ai gas che ai liquidi. In questo senso è importantissimo per il nostro discorso il fatto che, come il legno, l’argilla, non sia un materiale inerte. Le sue molecole infatti, soprattutto i metalli presenti naturalmente ed in proporzioni variabili interagiscono direttamente con la massa vinaria, cedendo al vino alcune caratteristiche peculiari che nel corso della serata abbiamo imparato a riconoscere.
Ecco dunque palesarsi la prima scelta. Un recipiente attivo nei confronti del vino, che si rende responsabile direttamente di variazioni, e non inerte e passivo come l’acciaio.
Durante la serata ho degustato sia un Prosecco Col Fondo “normale” che la sua controparte in anfora. L’apporto di quest’ultima è assolutamente chiaro e percepibile. Per prima cosa stiamo parlando di uve Glera coltivate praticamente in pianura, a San Polo di Piave. Per entrambe le versioni abbiamo la rifermentazione che avviene in bottiglia conferendo al vino le caratteristiche che già conoscevamo di rotondità e maggiore “importanza” rispetto ad un prosecco in autoclave, così come, generalmente, un sentore di pane e panificazione che lo accomuna ai metodo classico.
Abbiamo detto che l’anfora è recipiente attivo nei confronti del vino e quindi, tenendo invariate le altre caratteristiche, grazie a questo doppio assaggio dovremmo poter identificare in quale modo il materiale influenza il prodotto finito.
La nota principale è sicuramente l’aumento esponenziale di mineralità. Facilmente riconoscibile una sfaccettatura “fredda” e vibrante, attiva, nella versione “in anfora“. Non è questione di freschezza assoluta, il livello di acidità sembrerebbe rimanere pressoché lo stesso, è proprio lo spettro dei sapori che cambia.
Nel Col Fondo “tradizionale” la sensazione è quella di rotondità profumata ed agrumata, non corposa, non stanca, non burrosa. Ha un carattere paradossalmente docile se confrontato con il fratello “in anfora“. La seconda versione è più fredda, non fresca, proprio fredda, con un naso più omogeneo e meno fruttato. La parte componente agrumata è maggiormente bilanciata da un leggero sentore ferroso dolciastro, quasi ematico, che sfuma nei profumi del pane in cassetta confezionato. Avete presente i sacchettoni di pane bianco gigante di WallMart? Ecco…
Prosecco di Casa Belfi a confronto: Vini in Anfora o no?
Proviamo a mettere a fianco tre vini quindi: Prosecco normale, Col Fondo, e Col Fondo in anfora. Progressivamente ci allontaniamo da quella che è l’idea corrente di Prosecco. Progressivamente aggiungiamo livelli di complessità e piani di lettura uno sull’altro. Partiamo da un prodotto decisamente immediato, relativamente semplice da capire nelle sue componenti fondamentali, ci spostiamo su una completezza evoluta, compiuta, del discorso, aggiungendo una parte di sapori che la Glera ha come potenziale, ma che non vengono certo esaltati dal metodo Charmat, e finiamo con un prodotto che di prosecco non ha più praticamente nulla. Bolle a parte, nel bicchiere troviamo un bianco minerale e fruttato, complicato, spiazzante, buono, ma con un approccio assolutamente opposto a tutto il resto.
Arriviamo a testare anche un rosso prodotto attraverso la fermentazione e poi l’affinamento direttamente nelle anfore.
Parliamo di un uvaggio di Cabernet, sia Franc che Sauvignon con un saldo di Raboso. In questo caso la massa viene fermentata parzialmente in acciaio e parzialmente in anfora. La mano di Maurizio decide poi anno per anno in quale percentuale far confluire le due tipologie nella stessa bottiglia.
Anche in questo caso abbiamo notato in maniera decisa l’apporto delle anfore. Come per la Glera il risultato è difficilmente intuibile a priori, eppure è molto facile riconoscere la nota comune “estranea” per entrambe le tipologie.
Stessa nota metallica che addolcisce, non smussa gli angoli nel senso della rotondità, ma rettifica complessivamente il vino rendendolo più quadrato. Vibrante, ma molto bevibile. Scalpitante, guizzante, ma senza quella acidità spinta che useremmo solitamente per definirlo o giustificarlo tale.
Insolitamente omogeneo rispetto al prosecco assaggiato in precedenza, il filo conduttore è il medesimo, quasi che la nota connotante dell’anfora (unica costante tra le due bottiglie) sia talmente forte da stravolgere i vitigni e farli confluire a giocare sullo stesso terreno gustativo. Bella scoperta da un lato, ma apre alla mente lo spettro che ai più è noto come “effetto vaniglia” e del quale tristemente ci ricordiamo come appiattimento ed omogenizzazione dei vini, ai tempi ad opera di tonnellate di rovere francese.
Per tornare alla domanda iniziale, dunque, qual’è il perché di questa scelta e cosa ci dice della visione del produttore?
Sinceramente non ho ancora trovato una risposta soddisfacente. Da una parte, se per il Prosecco, ho riconosciuto un’aggiunta in un qualche modo positiva data dall’anfora, una strutturazione ancora maggiore, forse estrema ma non “inutile”. Stravolgente certamente, tanto che, ripeto, il chiamarlo ancora Prosecco lo trovo quasi sbagliato, ma la resa è indubbiamente un vino molto bevibile, che restituisce sicuramente piacevolezza. Dall’altra parte, una volta assaggiato un rosso, prodotto con un taglio che dovrebbe già racchiudere tutte le componenti per un equilibrio praticamente perfetto, ti rendi conto di quanto l’uso di questi recipienti sia estremamente connotante ed a mio avviso quindi un po’ inutile, una sovrastruttura non necessaria, forse.
Non fraintendetemi, anche il rosso prodotto da Maurizio è una bottiglia assolutamente piacevole, gustosa, particolare certamente, ma compiuta e probabilmente racchiude anche le caratteristiche per una evoluzione molto molto interessante nel tempo, ma l’uva, il frutto, nel bicchiere, quello rimane proprio un po’ schiacciato. E’ come se, in un certo senso, si percepissero solo alcuni aspetti di ciascun vitigno, tutti quanti poi trasformati dal recipiente, tutti in un’unica direzione.
Considerazione generale che a questo punto mi sento di riportarvi, a valle di una serata realmente ricca di sostanza è che sicuramente, ancora una volta se ce ne fosse bisogno, abbiamo imparato che il vino è un prodotto dell’uomo e che le sue decisioni sono fondamentali per ottenerlo. In questo caso le scelte fatte da Maurizio Donadi sono radicali e parecchio differenti da quelle comunemente fatte dalla maggior parte dei produttori. Il contributo della parte relativa al vigneto si distingue poco, è meno palese e sono convinto non sia meno importante, ma la qualità intrinseca dell’uva coltivata in biodinamica è difficilmente apprezzabile come fattore singolo. Sono abbastanza sicuro che per sostenere i passaggi successivi scelti in produzione da Casa Belfi sia necessaria una materia prima ricca e sana, perfetta e decisamente sopra la media. Ma un punto di innegabile vantaggio e “correttezza filologica” dell’uso della biodinamica è quello di riportare nel bicchiere senza alterazioni il contributo che terreno e vitigno in maniera naturale possono dare. Purtroppo, o per fortuna, la lavorazione dei Vini in anfora abbiamo capito essere realmente molto caratterizzante, quindi isolare la parte biodinamica sinceramente è più questione di fiducia che di palato. E forse in antitesi alla scelta di lavorazione così marcata.
La seconda parte della filosofia di cantina rimane criptica, soprattutto alla luce di quanto detto prima, molto più apprezzabile al palato che con il freddo ragionamento. Va detto che se la manciata di ore a disposizione questa sera con Maurizio sono state troppo poche per sviscerare i segreti ed i perché delle sue scelte, sono state sicuramente più che sufficienti per capire lo spirito generale di questo produttore, un vero amante del vino e della sua produzione dal primo momento in cui un ceppo viene scelto per essere piantato in vigna fino a quando il tappo delle sue bottiglie viene aperto. Un personaggio assolutamente rigoroso, con una grandissima storia da raccontare che passa anche attraverso questa scelta coraggiosa della anfore in terracotta. Da approfondire, con estremo piacere se ci sarà l’occasione, sia la sua conoscenza che quella dei suoi vini.
A presto dunque per una visita in cantina, con più tempo e più tranquillità.