Lasciati sfumare e sedimentare i pensieri a caldo, che hanno seguito l’edizione 2016 del Mercato dei Vini di FIVI (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti), provo a mettere in fila qualche considerazione più arguta e un po’ meno di pancia, perché questa è stata una edizione quanto meno particolare.
Impressionante l’afflusso di gente rispetto agli anni passati già dalla mattina, forse complice l’orario leggermente più ritardato, forse la quantità di produttori presenti, forse una generale riscoperta del mondo del vino “artigianale”.
Non saprei dire con esattezza, ma alle 10.45, il parcheggio che solitamente contava non più di una quarantina di auto, questa volta era pieno zeppo. La coda fuori dalle porte principali del Piacenza Expo era consistente e variegata, la fila per i biglietti era qualche cosa di mai visto prima.
I sentimenti, devo ammetterlo, sono stati altalenanti. Il primo impatto con una così grande quantità di persone non è stato positivo, lo dico tranquillamente da piccolo egoista. L’idea di affrontare una giornata intera di assaggi in mezzo a quella che si prospettava come una bolgia stile Vinitaly proprio non mi attirava, anzi.
Dall’altra parte, però, il piacere è stato veramente grande, pensando agli amici produttori, che avrebbero potuto beneficiare di una domanda tanto vibrante.
Fatta la coda per gli accrediti, si sono ripresentati due dei punti negativi di organizzazione evidenziati anche gli scorsi anni: la mancanza di un guardaroba, anche se la quantità di gente di quest’anno effettivamente avrebbe complicato le cose, e la mancanza della taschina porta bicchiere, cosa che ha prodotto nel corso della giornata una quantità di morti suicidi sul pavimento non indifferente.
Non proprio una novità invece, la possibilità di prendere un carrello per andare a fare la spesa al mercato. Si poteva fare anche gli anni passati, ma quest’anno ne abbiamo visti una quantità imbarazzante, parecchi usati solo per riporre le giacche, che hanno creato non poca confusione e più di qualche scena da “Esselunga” il sabato mattina, con scontri, caviglie segate e conseguenti maledizioni. Personalmente, ed egoisticamente, li ho trovati molto fastidiosi, ma ancora una volta dobbiamo dare a Cesare quel che è di Cesare: trattasi di mostra mercato, quindi è giusto che i partecipanti siano lì per comprare, e con ben 400 cantine presenti, devono poter comprare tanto, quindi giusti i carrelli. Bisogna anche aggiungere che in altre manifestazioni la confusione è addirittura superiore, rendendo chiacchiere ed assaggi ai banchetti dei produttori ancora più difficoltosi..
Riflessioni e sensazioni sul Mercato dei Vini
Per parlare dei vini ci sarà tempo in futuro, loro non scappano, quello che ho paura si perda tra le pieghe dei prossimi mesi è la sensazione che ho portato nel retrocranio per i giorni successivi all’evento. Quella che mi sono portato a casa è stata una visione differente della FIVI. Differente da ciò che avevo imparato frequentando non pochi eventi e conoscendo più di qualche produttore. Io ho conosciuto FIVI attraverso i suoi “ambasciatori”, non dai comunicati stampa, l’ho “bevuta” dalle bottiglie e dalle botti, non ho letto né statuti né eventuali regolamenti. Quindi, mea culpa, ne avevo una visione, ed una idea, probabilmente un po’ distorta, sicuramente parziale, ma per quello che ne potevo sapere, era anche un’idea molto vera.
Io mi ero dipinto questa federazione come un piccolo paese delle meraviglie. Un posto, un nome, un qualche cosa, che riusciva a mettere a fattor comune tutta una serie di qualità del mondo del vino che ho imparato ad apprezzare e considerare nel momento della valutazione complessiva di una bottiglia e di chi la produce.
Nella mia testa c’era, legato a quel simbolino rosso, nero e bianco, un retrogusto diffuso di artigianalità, di rigore, di eroismo, di piccolo produttore indipendente, che se devo dire la verità, il weekend del 26 e 27 Novembre non ho ritrovato del tutto nell’aria di Piacenza.
Ho visto una manifestazione molto bella, ho visto tanto pubblico comprare tante bottiglie e fare felici tanti produttori, ho assaggiato vini indistintamente ben fatti, a modo, di qualità sicuramente alta, ma della poesia dei primi anni mi è rimasto attaccato ben poco.
Cercherò di spiegarmi meglio, perché non passi l’idea sbagliata. Da un lato, quello che ho visto mi è piaciuto. Mi può fare solo piacere che una federazione che si pone lo scopo di promuovere e tutelare un vino più a misura d’uomo abbia raggiunto questi numeri, ma inevitabilmente, in tutte le cose, più il carrozzone diviene grande e più facile, ed anche giusto probabilmente, diventa la tendenza all’affievolirsi delle tinte forti, che lasciano spazio a sfumature e mezzi toni. I duri e puri della prima ora, con il passare degli anni hanno ceduto il passo ai moderati, agli strateghi… agli uomini comuni.
Questo è un po’ quanto, che a grandi linee, mi ha lasciato dentro questa nuova edizione. Mi ha comunicato la “potenza” di una associazione di categoria. Ha però anche fatto emergere una domanda, che forse non è solo nelle nostre menti, ma condivisa da più di qualcuno, ovvero la definizione di Vignaioli Indipendenti.
Regolamento FIVI e legislazione Aziende Agricole
Elaboro: quell’omino con la cesta d’uva sulle spalle ha un sapore veramente forte. Colpisce e contribuisce sicuramente a rafforzare nella mente del consumatore un’idea fortemente in sintonia con la visione, forse un po’ mitizzata, che ho di FIVI, o meglio, dei partecipanti di questa Federazione. Ma la curiosità ha fatto il suo lavoro, e la deformazione professionale ha fatto il resto, e per la prima volta sono andato a leggere il regolamento associativo e lì per lì non ho trovato nulla di strano, anzi solo conferme. Possono far parte della Federazione:
le aziende vitivinicole (ditte individuali e/o società agricole non cooperative), intendendosi per tali le aziende che esplicano al loro interno le tre funzioni – non una esclusa – di gestione del vigneto fino alla raccolta dell’uva, della trasformazione in vino dell’uva raccolta nel vigneto gestito, della commercializzazione del prodotto in tal modo ottenuto; e che comunque siano definibili aziende agricole ai sensi della legge, con particolare riferimento a quanto disposto in fatto di acquisto e utilizzo di uva e di vino da parte di azienda agricola. Le aziende vitivinicole che abbiano titolo per dichiarare in etichetta “Imbottigliato dal produttore all’origine” sono comprese fra quelle che possono far parte della Federazione. Non possono fare parte dell’associazione le aziende commerciali in qualunque forma esercitate.
Trovate anche voi un piccolo punto oscuro? Vi aiuto: “e comunque che siano definibili aziende agricole ai termini di legge”. E cosa dice la legge?
Dopo l’ultima modifica del 2007 recita:
“Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge”.
E qui un po’ mi casca l’asino. Riflettiamo: il concetto di prevalenza è ciò che è stato introdotto come novità. Quindi si parla nella pratica dell’obbligo di disporre del 51% del totale dei mezzi e strumenti necessari all’attività. Quindi è comunque possibile rientrare nella fattispecie dell’azienda agricola, e quindi appartenere a FIVI senza problemi, anche se uso il 49% di uve acquistate fuori azienda come recita il Regolamento FIVI, anche se il 49% del processo produttivo è fatto presso terzi.
In pratica potrei produrre 1000 bottiglie comprando il 49% dell’uva necessaria, raccogliendo a mano la mia uva (occupando quindi gran parte del tempo e mezzi sul totale), e portare a vinificare in una cantina amica. Tornare in azienda, imbottigliare a mano, tappare a mano, etichettare a mano.
Ma a questo punto chi sono i Vignaioli Indipendenti?
Indipendente non dovrebbe prevedere una totale autosufficienza? Quanto meno di mezzi? Disponibilità della materia prima, disponibilità di sistemi di vinificazione, capacità di vendita?
Ora, rimane verissimo che queste sono solo questioni di lana caprina, in quanto quello che personalmente continua ad essere importante davvero è quello che ritrovo in bottiglia e mentre parlo con i produttori. Quindi tutto sommato nella pratica dei fatti non cambia nulla. Ma mentirei se dicessi che ora mi provoca un certo stridore il vedere quel simbolo sulle bottiglie di un’associazione che ha un grandissimo potenziale e sta già facendo tanto.
Costerebbe così tanto fare un passo ulteriore verso una “regola” un po’ più esclusivista? Ovvero:
- E’ ancora un vignaiolo indipendente chi oltre a produrre in proprio è conferitore in cantine sociali?
- Chi compra uva da altre aziende, porta la propria materia prima a vinificare fuori azienda per avere una linea prodotto più coerente con il proprio territorio pur non avendo le possibilità?
E se è vero tutto questo, cosa vuole dire oggi fare parte della FIVI e cosa garantisce al consumatore l’acquisto di una bottiglia con quel marchio?
Beninteso, che secondo me a questo mondo ed “in” questo mondo c’è veramente spazio per tutti quelli che producono buoni prodotti, siano micro produttori o marchi commerciali, ma mi domando ancora una volta cosa deve imparare il consumatore per sapere veramente quello che sta comprando? Forse sbagliavo in partenza, ma ho sempre pensato che quel piccolo marchietto sulla capsula o in retro etichetta mi garantisse che quel vino era stato “interamente” prodotto all’interno di una determinata azienda. Partendo dalla conduzione del campo, alle strutture di cantina, passando per le scelte enologiche e l’etichettatura. Poco mi importa della distribuzione. Che venda solo direttamente o con mille agenti in tutto il mondo non cambia il contenuto, ma tutto il resto forse sì. O meglio, indipendentemente dalla qualità del prodotto (che abbiamo imparato in passato spesso essere molto più garantita dalle grandissime produzioni piuttosto che dai piccolissimi onestissimi impreparatissimi vignaioli dell’ultima ora) mi raccontava di una filosofia, di un approccio, di un’etica racchiusa e custodita sotto al tappo.
Ed è inutile nascondersi dietro ad un dito, le dimensioni contano. Se 400 produttori in un’unica sala stanno sotto la stessa bandiera, se in quella sala si passa con i carrelli della spesa, se ritroviamo nomi microscopici e nomi enormi, quella che mi passa è l’idea di un grande carrozzone. Una sorta di Sindacato di Stato, una roba un po’ da Gilda, quasi da partito. E purtroppo queste parole non si collegano nel mio cervello con integrità e ricerca della qualità. Ma è solo una impressione, tra l’altro molto probabilmente sbagliata e sicuramente personalissima, che ho avuto io. Perché nella pratica dei fatti, anche quest’anno che per scelta cosciente, non abbiamo dedicato il giusto tempo agli amici più intimi come Bastia Rebuli, Fratelli Aimasso, Antico Borgo dei Cavalli, Antonio Panigada e tanti altri, proprio per andare a scoprire territori e cantine ancora sconosciuti, abbiamo bevuto molto bene praticamente in ogni parte d’Italia.
Due appunti di degustazione
La qualità media che abbiamo percepito è stata comunque molto buona: sempre meno vini “sbagliati” anzi quasi nessuno, sempre meno prodotti “rivedibili”, molte bottiglie buone e qualcuna molto buona, partendo dall’Alto Adige e arrivando in Calabria; spero ci scuseranno gli amici siciliani se non abbiamo assaggiato nulla, ma eravate troppi.
Saranno altri i post dove passeremo in rassegna specifica le varie cantine, ma giusto per citare qualche nome sparso: il Riesling di Castel Juval, Haderburg con il suo Spumante Riserva del 2006, tutti i vini di Unterhofer, da Marco Donati ci siamo innamorati del suo Sangue di Drago e della storia epica della sua cantina. Siamo scesi in Campania da Nanni Copè e Pietracupa, personalmente ho sognato con i vini di Morella con la sua Signora che ancora ricordo in maniera viva.
Insomma, quello che mi porto a casa, oltre al piacere di vedere i progressi di una associazione nella quale credo ancora molto, oltre alla bellezza di sentirsi raccontare dai produttori che hanno venduto bene, oltre alle bellissime parole del magnifico Luigi Gregoletto, che ancora mi suonano in testa in modo cristallino e genuino, oltre alla bellissima conferma che la qualità dei produttori attenti e consapevoli è in traiettoria decisamente ascendente, è una persistenza di gusto non perfettamente allineata ai profumi, per dirla come i bravi sommelier.
Quel piccolo sentore di vaniglia che avverti appena, quando è scappata una settimana di troppo nella botte troppo giovane, che ti fa alzare un sopracciglio e ti poni la domanda a proposito delle volontà del cantiniere. Ecco, solo questo, più che una delusione è una paura, un velato timore. Timore che il grande e meritatissimo successo ottenuto da questa idea correttissima ed ammirabile sotto ogni sfaccettatura, per eccesso di successo possa sporcarsi ed imbastardirsi oltre le fisiologiche dimensioni. Sarà inevitabile, come detto, uno smorzamento delle posizioni, ma speriamo tanto che non ne fuoriesca una completa deriva in nome dei numeri, del peso politico nel mondo del vino, in nome del nome per il nome.
Troppo apprensivi? Forse. Ma come le mamme apprensive, non lo facciamo per cattiveria, ma per eccesso di amore.